Gestione del rischio e attività OutDoor, intervista ad Angelo Seneci

Quale sviluppo e possibile futuro delle attività outdoor anche alla luce dei recenti fatti di cronaca: intervista ad Angelo Seneci, uno dei più accreditati esperti di gestione delle attività outdoor.

Angelo Seneci, tragedie come quelle che quest’anno sono successe nell’ambito di alcune attività outdoor lasciano senza parole. Cosa ne pensi?
E’ sempre delicato intervenire su eventi drammatici come quelli. Il primo pensiero va alle vittime e ai loro familiari… Tragedie come quelle suscitano sconforto accompagnato sempre da accesi dibattiti. Tuttavia non ho sentito nessuno porsi una domanda fondamentale: quanto e come è cambiato il mondo dell’outdoor e quale nuovo approccio e risposte richieda questo nuovo scenario da parte dei diversi attori coinvolti: amministrazioni pubbliche, associazionismo, professionisti.

Puoi spiegarti meglio?
Sembra quasi che un po’ tutti facciano finta di non vedere questo cambiamento per non perdere posizioni di privilegio. Non ci si rende conto che di questo passo il rischio è che le amministrazioni pubbliche, spaventate dalle ripercussioni legali (penali e civili), passino tout court alla chiusura delle aree potenzialmente pericolose.

Dunque cosa si dovrebbe fare in concreto?
Senza entrare nel merito del caso specifico che ha peraltro proprie specificità, credo sia importante che gli esperti comincino a pensare e suggerire percorsi che evitino due scenari estremi: da un lato la quasi deregulation a cui assistiamo oggi, con le drammatiche conseguenze che ne derivano, dall’altro il diffondersi dei divieti con la fine dello sport outdoor.

Da dove si parte per pensare al futuro?
Prima di tutto dobbiamo affermare il grande valore che le attività sportive outdoor hanno assunto sotto il profilo sia sociale che economico: sono ormai decine di milioni le persone che in tutta Europa dedicano il loro tempo libero all’escursionismo, alla mountainbike, all’arrampicata, alla discesa dei canyon. Da attività di nicchia, praticate da uno sparuto numero di “avventurieri”, con un solido background tecnico ma anche culturale, capaci quindi di valutare il rischio ma anche di accettarlo con tutte le sue conseguenze, si sono trasformate in attività sportivo-ricreative praticate da milioni di persone, spesso con background tecnico e culturale limitato, che vogliono solo trascorrere qualche ora di svago ed emozione nella natura, spesso senza alcuna contezza dei rischi a cui sono esposte.

E’ questa crescita esponenziale che segna il cambiamento del mondo dell’outdoor di cui parlavi all’inizio?
Sì, e bisogna sottolineare anche che questa crescita esponenziale dei praticanti ha permesso ad alcune località, in modo sempre più diffuso negli ultimi anni, di fare di queste attività una risorsa economica, non solo per destinazioni turistiche già sviluppate ma anche per aree fino ad ora tagliate fuori dai classici flussi del turismo balneare o montano. Ci sono aree di arrampicata dove le presenze annuali ormai si contano a centinaia di migliaia, singole vie ferrate o canyon che vedono oltre diecimila passaggi all’anno, sentieri panoramici dove transitano quasi mezzo milione di persone all’anno, dove agenzie di guide ed accompagnatori più volte al giorno accompagnano gruppi di decine di persone… Possiamo veramente pensare che situazioni di questo tipo possano essere lasciate all’autoregolamentazione degli utenti?

Stai proponendo di “regolamentare” le montagne e la natura?
Certo che no! Anzi voglio troncare sul nascere qualsiasi discussione impropria: non si tratta di applicare questo modello a tutto il mondo outdoor, a tutte le attività, ma solamente nelle situazioni dove i numeri o il contesto specifico (ad esempio facile ed immediato accesso, promozione turistica) ne faccia un attrattore per persone con uno scarso livello di capacità autonoma di valutazione del rischio. E’ chiaro che non si potrà e non si dovrà intervenire a regolamentare l’alpinismo, l’escursionismo, l’arrampicata o lo sci-alpinismo nelle aree selvagge e liberamente attrezzate dai praticanti. Mentre ritengo altrettanto evidente che quando i numeri diventano importanti, in modo particolare per attività con concentrazioni considerevoli in spazi limitati ed esposti a rischi importanti, si debba pensare ad una loro gestione.

Ecco, appunto: di che tipo di gestione si tratterebbe?
Una gestione che alla base deve avere una preliminare valutazione dei rischi che consenta di valutare la fattibilità di progetti ed interventi di mitigazione, seguita da regolare ispezione e manutenzione per mantenere il livello di rischio pianificato e conseguito. Si devono poi dare chiare informazioni sul livello di rischio residuo e su eventuali limiti alla frequentazione dell’area. In alcuni casi può essere necessario gestire gli accessi, con numeri contingentati o interdizione in caso di accresciuta pericolosità. La gestione degli accessi può anche essere necessaria a garantire la capacità di chi accede. Dovranno essere messe in campo strutture e servizi per lanciare allerte in tempo reale ed immediate operazioni di evacuazione dell’area e soccorso.

Insomma, quello che alcuni chiamano il modello “parco divertimenti” applicato alla natura?
A chi mi dice che così trasformiamo la montagna in un parco dei divertimenti, rispondo che, in alcune aree, lo è già, piaccia o non piaccia, e che è anche una fonte di reddito importante per tanti territori ed una industria con un impatto relativo sull’ambiente (ho detto relativo e non nullo) e certamente inferiore a tante altre opzioni di reddito per le popolazioni locali. Dobbiamo prenderne atto e trovare i modi per gestire questo fenomeno al meglio. Gestire i numeri non aumenta solo la sicurezza ma anche contiene l’impatto ed il degrado sia nei confronti dell’ambiente, che della popolazione locale, che della stessa esperienza per i praticanti.

Scusami, ma così rischiamo che si impongano le stesse regole stringenti per tutto lo spazio outdoor…
E’ un falso problema, uno spettro agitato per lasciare ovunque la deregulation. E’ evidente che dove il rischio è puntuale (in termini di persone esposte), dove è chiaro che ci si trova in un ambiente naturale selvaggio (il cosiddetto terreno di avventura) la gestione non ha senso oltre che essere non applicabile, diverso è in aree facilmente raggiungibili, massicciamente frequentate, pubblicizzate e segnalate. Anzi, vado oltre: la pratica in terreno di avventura ricaverà vantaggi da una chiara distinzione tra terreni d’avventura e siti naturali attrezzati, in caso di incidente sarebbe evidente che in quelle condizioni l’accettazione di un rischio elevato è parte del gioco, mentre non lo può essere, ad esempio, quando l’attività viene proposta come Family.

Torniamo alla gestione di questi spazi, a chi dovrebbe essere affidata?
La gestione deve essere affidata ad una struttura che abbia le competenze, ed allo stesso tempo possa garantire la necessaria oggettività ed immediatezza nella valutazione del rischio.

Dunque chi dovrebbero essere i soggetti in grado di prendere in carico la gestione di un sito naturale attrezzato?
Su questo ritengo sarebbe sbagliato definire in modo univoco soggetti e procedure a livello generale, troppo diversi i contesti istituzionali, amministrativi, socio economici. Possono assumerlo le amministrazioni con proprio personale formato o affidarlo in appalto, l’area può essere affidata in concessione (sull’esempio delle spiagge ma anche dei BikePark) ad una associazione, una società, che se ne assuma gli oneri di manutenzione, controllo e gestione, a fronte di una tassa di ingresso. Ovvio che dovrà essere personale con elevata capacità decisionale e responsabilità, oltre che specifiche conoscenze tecniche. Su questo devo ritornare al punto iniziale, agli scontri tra i vari soggetti che sono coinvolti nell’accompagnamento e nell’insegnamento…

Ecco, ritorniamo al quadro attuale…
Ci troviamo di fronte ad un quadro normativo che da tempo non è più adeguato e che anche per responsabilità dei diversi soggetti coinvolti non è mai stato fatto evolvere: tutti indistintamente, chi per difendere i propri interessi corporativi, chi per mantenere piccole posizioni di potere, chi perché spera di avere più spazio di manovra nella deregulation. Ci sono aree del paese, soprattutto al sud, dove peraltro questo tipo di economia potrebbe essere l’occasione di lavoro per tanti giovani, dove i professionisti di queste attività mancano totalmente e dove le guide invece che mettere la propria professionalità a disposizione per la loro crescita, spesso hanno un atteggiamento “coloniale” e facendone riserve di lavoro per le stagioni morte, attaccando qualsiasi tentativo di organizzazione autonoma locale accusata di abusivismo. D’altro canto alcune organizzazioni para professionali o associazioni hanno osteggiato qualsiasi rapporto reale con le guide per la paura di cedere spazi conquistati.

Quindi, cosa si potrebbe fare secondo te?
Più serio ed anche utile alla tanto sbandierata sicurezza sarebbe un tavolo di lavoro comune, che veda tutti i soggetti che attualmente sono impegnati a vario titolo in questo mondo, definire i contorni delle nuove figure professionali di questo sport. Ma un tavolo che non sia un trattativa dove tutti puntano al massimo per la propria categoria, ma dove tutti mettono sul tavolo le proprie competenze per creare veramente nuove figure professionali per l’arrampicata sportiva, il canyoning, la speleologia, l’escursionismo.

Angelo Seneci. Laureato in scienze geologiche. Nei primi anni ottanta esercita la professione di guida alpina. Fonda poi Sint Roc una delle più note aziende di strutture per arrampicata ed è tra gli inventori di Rock Master. È protagonista del successo del GardaTrentino come destinazione turistica di riferimento per l’outdoor. Ora porta la sua esperienza nello sviluppo del turismo outdoor in tutto il mondo. Nel ruolo di consulente con la società Outdoor Advisor per enti pubblici e privati ha modo di toccare costantemente con mano le problematiche della gestione del rischio nello spazio outdoor.

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Hansjörg Auer: l’intervista dopo la salita del Lupghar Sar West in solitaria

Intervista all’alpinista austriaco Hansjörg Auer dopo la salita in solitaria del Lupghar Sar West, montagna di 7181 metri nel Karakorum (Pakistan).

Il 7 luglio 2018 Hansjörg Auer ha completato la prima salita della finora inviolata parete ovest del Lupghar Sar West, montagna di 7181 metri nel Karakorum Pakistano, salita per la prima volta nel 1979 da una spedizione tedesca guidata da Hans Gloggner. Arrampicando in solitaria, il 34enne alpinista è partito il 6 luglio e in 7 ore e mezzo è salito dal campo base a 4500 metri fino a 6200 metri dove ha bivaccato. La mattina successiva è partito alle 5 e, seguendo una linea sulla parte sinistra della parete, ha raggiunto la ripida cresta NO che ha seguito fino alla cima che ha raggiunto alle 11:30 della mattinata del 7 luglio. La discesa, complicata e stancante, è filata comunque liscia e alle 8 di sera è rientrato al campo base.

Hansjörg, la tua spedizione è terminata quasi terminata prima che iniziasse, quando hai perso del materiale durante il difficile avvicinamento
In tutti i miei anni di spedizione ho sempre pensato che, prima o poi, questo sarebbe successo. Il momento peggiore in cui poteva accadere è probabilmente in una spedizione solitaria, perché ovviamente hai meno opzioni quando manca del materiale. Fortunatamente non era il bidone con l’attrezzatura più importante e, cosa ancora più importante, fortunatamente è stato soltanto un bidone a cadere nel crepaccio e non il portatore!

Sapevi poco di quella montagna prima di andarci. Cos’hai pensato quando l’hai vista per la prima volta?
Quando siamo arrivati ​​al campo base il tempo era brutto, quindi non ho potuto vedere il Lupghar Sar. Alla sera però il cielo si è un po’ rasserenato; inizialmente ho visto l’incredibile Ultar Sar sul lato opposto della valle dell’Hunza, sono stato sopraffatto dalla bellezza di questa montagna. Mentre guardavo a bocca aperta, uno dei miei amici pakistani mi ha dato una gomitata e ha detto: “Aspetta a vedere quello che sta per arrivare dall’altra parte”. Un paio di minuti dopo ho visto il Lupghar Sar. Altrettanto bello!

Hai subito iniziato il tuo acclimatamento. In passato l’hai fatto più e più volte. Presumibilmente questa volta è stato diverso…
Acclimatarsi durante una spedizione in solitaria è super noioso. Inoltre, il tempo non era dei migliori. Fortunatamente ho trovato delle belle salite, il che è stato positivo per la mia motivazione mentre mi adattavo all’aria più sottile. E devo dire che mi sono sentito più forte rispetto alle precedenti spedizioni, il che è stato piuttosto interessante.

Poi hai individuato il modo per raggiungere la parete. Qual è stato il tuo “feeling” con la montagna?
Non è stato facile trovare l’avvicinamento giusto, quindi ho deciso di investire del tempo a cercare il modo migliore per raggiungere la base della montagna. Il ghiacciaio superiore del Baltbar è piuttosto selvaggio, cadere in un crepaccio è l’ultima cosa che vorresti. Alla fine però si è rivelato meno complicato di quanto avessi inizialmente pensato. Ma non sapevo bene quale linea salire; avevo due opzioni e ho lasciato passare del tempo mentre aspettavo la mia voce interiore. Per rispondere concretamente alla domanda, fin dall’inizio ho avuto un buon feeling con la montagna.

Quando hai individuato l’accesso alla parete, sei partito quasi subito. Ci aspettavamo una lunga attesa al campo base per la finestra di bel tempo…
Anche io a dire il vero. Ma poi mi è stata data una prima possibilità. C’erano ancora venti forti in quota ma volevo sfruttare questa possibilità, perché non si sa mai se è necessario un secondo tentativo. Ricordo la mattina quando sono partito dal campo base, nevicava ancora un po’. Ma il mio obiettivo era molto forte, così ho iniziato a salire. Alla fine questa finestra di bel tempo si è rivelata molto più lunga dei tre giorni previsti inizialmente.

Cosa ci puoi dire della salita. Cosa ti passava per la mente?
Il primo giorno è andato davvero bene. Javed, la mia guida, mi ha accompagnato per un po’, mi aveva chiesto se poteva seguirmi per le prime due ore per raggiungere l’inizio del ghiacciaio. Non è stato facile per lui vedermi partire da solo, lo capivo molto bene. La sera al bivacco ho avuto dei dubbi inaspettati, mi sono chiesto cosa stavo facendo lassù. Ero già a 6200 metri e non ero sicuro di poter affrontare quello che avevo in testa. Non ero preoccupato per le difficoltà tecniche, i dubbi piuttosto erano legati all’essere da soli. Poi ho cominciato a pensare alle Dolomiti, alle Alpi e mi sono detto che avevo già scalato così tanto in solitaria. Questo mi ha aiutato.

Quella cresta finale sembra spaventosa…
A dire il vero da sotto la cresta sembrava OK. Avevo scelto una linea sul lato sinistro della montagna e ho raggiunto la cresta nord occidentale a circa 6900 m, fino a lì avevo salito prevalentemente del ghiaccio tra i 50-55°. Raggiunta la cresta ho depositato tutto la mia attrezzatura e ho proseguito verso la cima. Il problema era che la qualità della roccia era davvero pessima. A metà della cresta ero convinto di aver commesso un grosso errore lasciando la corda in basso. La difficoltà era circa di M3, una sezione di M4. Non più difficile, ma comunque sufficiente per me in solitaria a circa 7000m. Ma a quel punto ero rientrato nella mia mentalità “da solitario”. Riuscivo a vedere la cornice sommitale e arrampicavo in maniera molto fluida. Dopo la sezione rocciosa ho dovuto affrontare due ripidi pendii di neve, profondi fino all’anca. Quelli erano ancora più spaventosi.

Parlaci della cima
Appena sotto la cornice sommitale ho trovato una vecchia corda. Immagino che fosse dei primi salitori, sembrava davvero molto vecchia. Poi sono arrivato al punto più alto e ho cercato di godermi il momento il più possibile. Le nuvole stavano crescendo velocemente. Ho trascorso mezz’ora in cima, come promesso ho chiamato la mia ragazza tramite il telefono satellitare, e ho pensato a tutti i miei amici. In particolare a Gerhard Fiegl che avrebbe dovuto essere lassù con me, a vivere questa atmosfera unica.

La discesa, se non sbagliamo, è stata molto vicino al limite
Non al limite assoluto, ma mi sentivo molto stanco. Mentre scendevo arrampicavo molto lentamente e mi sono riposato spesso. Sulla terminale sono caduto per 15 metri, quando il ponte di neve è crollato, ma poi ho raggiunto il mio campo base avanzato e ho deciso di continuare fino al campo base. Mi ci sono volute altre cinque ore per raggiungere la morena, dove Javed mi era venuto incontro, non sapendo che ero stato in cima. Era molto sollevato nel vedermi.

Quindi quanto è stata difficile la salita fisicamente? E psicologicamente?
Devo dire che quest’anno mi sono sentito molto bene. I momenti in cui arrampichi in solitaria in alta montagna sono molto rari, quindi devi usare tutte le opportunità che ti vengono date. Quando si arrampica da soli, tutto sembra più focalizzato sulla salita che sulle emozioni. Arrampicando da solo in alta quota provavo molte meno emozioni di quanto non fossi abituato. È interessante notare che questo ha reso molto più facile mettere da parte i dubbi. Forse perché il mio desiderio di raggiungere la vetta era ancora più forte. E se arrampichi da solo, hai bisogno di una spinta interiore davvero forte, perché nessuno è lì per aiutarti in quei momenti quando manca la motivazione o quando ti assillano i dubbi.

Se fossi stato con qualcun altro, come sarebbero andate le cose?
Difficile da dire. È semplicemente un’esperienza diversa essere in solitaria. Non puoi confrontarle.

Allora giriamo la domanda. Quanti contatti hai avuto con il mondo esterno?
In realtà durante la spedizione ho avuto un contatto solo, con la mia ragazza. Volevo rimanere super concentrato. Prima della partenza nessuno mi aveva detto che sarebbe stata una cattiva idea scalare in solitaria, nemmeno la mia ragazza, Alex Blümel o i miei fratelli, a cui sono molto grato. E la telefonata che ho ricevuto da Simon Anthamatten poco prima di partire è stata molto motivante e mi ha dato una spinta psicologica importante per il mio progetto. Siccome è lui che mi ha fatto conoscere l’alpinismo d’alta quota nel 2013, lo tengo in grande considerazione. È un grande.

Come valuti questa salita?
Quello che ho fatto non è niente di nuovo. Ci sono state salite in solitaria molto più difficili sulle alte montagne in passato. Lo vedo più come un passo indietro verso uno stile più puro dell’alpinismo. Ma se parliamo di tentare le vette in uno stile puro, i risultati degli alpinisti degli anni ’70 e ’80 sono ancora l’asticella contro il quale misurarsi!

Uno dei motivi principali per cui volevi fare questa spedizione è che volevi sapere come ci si sente ad essere in quota da soli. Allora, come ci si sente?
Molto molto bene. Sono felice di averlo sperimentato ed è sicuramente molto diverso dall’essere in un team. In particolare, il processo decisionale non è facile, non puoi discutere di cosa fare e non puoi chiedere consiglio a nessuno. Anche se non puoi scalare vie tecnicamente molto difficili, l’essere da soli aggiunge un po’ di pepe a tutto.

Quanto meglio conosci Hansjörg Auer adesso?
Prima di partire ho confessato alla mia ragazza che non so perché ho così tanto bisogno di fare queste cose. Dopo questa spedizione, purtroppo non c’è ancora risposta. E forse non ce ne sarà mai.

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Frosolone: le ultime realizzazioni di Pietro Radassao a Colle dell’Orso

Le ultime salite di Pietro Radassao nella falesia Colle dell’Orso a Frosolone in Molise, e le foto d’arrampicata di Francesco Guerra.

La falesia di Colle dell’Orso, in Molise, non ha ancora esaurito il suo potenziale di crescita: tra vecchie vie, poco ripetute e vie nuove, appena liberate, Pietro Radassao ci racconta le linee e il fascino delle salite di quest’estate.

Se si considera che altri progetti ancora attendono di essere realizzati in questa storica falesia del Centro-Sud, allora è lecito attendersi che qualche bella pagina dell’arrampicata italiana può essere ancora scritta tra i massi calcarei di Colle.

REALIZZAZIONI ESTATE 18’ di Pietro Radassao
LIQUID SKY 8c:
Vecchia via richiodata e liberata da Mauro Calibani. Dopo la rottura di alcune prese è stata salita da Emilio Silvaroli. Boulder in partenza poi continuità con un riposo nel mezzo. Qualità della roccia e dei movimenti unica. Prima ripetizione (nello stato attuale).

FALLO DENTRO 8c: Dieci metri ad intensità crescente. In seguito al peggioramento di un piede e di una presa sul passo chiave, per me si tratta della via con il singolo più duro che abbia mai fatto. Prima salita (nello stato attuale).

IL VOLO DEL CALABRONE 8b+: Chiodata da Luigi Baratta è, insieme a “Ultimo Viaggio con Caronte”, la linea caratteristica della Valle Segreta, il settore più suggestivo della falesia. Partenza facile poi un boulder seguito da continuità fino a sotto il tetto, dove termina il duro. Prima ripetizione.

BELLA TOPINA 8b: Situata sempre a “Valle Segreta”, questa volta nella parte iniziale e più verticale del blocco, si tratta della classica via dura di Frosolone: difficile boulder in basso poi riposo e sequenze molto meno intense nella parte medio-alta. Prima ripetizione.

FUMANA MANDALA 8b: Vecchio progetto chiodato diversi anni fa da Mauro Calibani, pochi metri a destra di “Mantanavai” (Blocco O). Sequenza di allunghi iniziale su qualche presa scavata o migliorata e dopo il 4° spit termina il difficile della via, ma attenzione alla parte alta: roccia fragile in alcuni tratti e sosta fatusta in cima dopo un run-out. Prima salita, in attesa di conferme sul grado.

PULCINELLA 8b: Placca leggermente aggettante situata al centro del Blocco Q (Morgia Quadra). Chiodata e liberata da Mauro Calibani, c’è il solito boulder in partenza questa volta seguito da altri 10 movimenti di estrema precisione e coordinazione. Grande soddisfazione per me averla salita in giornata insieme a “Il Lato Oscuro”. Chi ha provato queste vie sa che i gradi sono solo numeri e non bastano a descrivere la complessità di tiri come questo.

MY FRIEND 8a+: Vecchio progetto chiodato per la precedente edizione del Memorial Marco Berardo da mio padre Carmine Radassao. Poco strapiombante ma con una sequenza di dita con piccolo dinamico di precisione abbastanza ostico. Prima salita, in attesa di conferme.

FUGA DALLA REALTA’ 8a+: La più facile delle 3 nuove connessioni che ho chiodato ultimamente sul Blocco S (Blocco Galactica). Percorre “Fuga da Galactica” fino al terzultimo spit, poi va verso sinistra e termina su “Fuga dalla Follia”. Prima ripetizione dopo la libera di Emilio Silvaroli.

SCIMPANZE’ ARRAPEITO 8a+: Via-progetto chiodata da mio padre Carmine per il Memorial di 2 anni fa. Salita dai fratelli Silvaroli, 1° e 2° classificati proprio in quell’edizione dell’evento che si svolge ogni anno in memoria del nostro amico Marco Berardo. Seconda ripetizione.

IL LATO OSCURO 8a: Variante di 3 spit del “Punto Oscuro” che avevo chiodato 4 anni fa senza mai provarla seriamente. Blocco tremendo di 2 movimenti, sicuramente l’8a più ostico della falesia, salito unicamente dal solito Emilio Silvaroli e da me.

VIA CRUCIS 8a: Lunga placca verticale di quasi 30 metri dove la forza non serve a nulla: tecnica, dita e utilizzo preciso dei piedi sono indispensabili per questa via. Si trova sul lato destro della Morgia Quadra (Blocco Q) e fortunatamente è all’ombra dal primo pomeriggio in poi! Terza ripetizione.

VIE IN FOTO – Climber: Pietro Radassao – Fotografo: Francesco Guerra
ULTIMO VIAGGIO CON CARONTE 8c:
Una crepa, un buco, una fossa buia, umida e fredda immersa nel silenzio. Perfino il tratto da percorrere per accedervi è impervio ed ostico. Dal fosso emerge una parete strapiombante di 30 metri: è qui che si trova “Ultimo Viaggio con Caronte”. Divisa in due tiri, dopo la prima catena (7c+) la via abbandona l’oscurità e illuminata dai raggi del sole, svetta poi tra i colori: il verde degli alberi della “Valle Segreta” e il blu del cielo frosoloniano. Chiodata da Gianluca Mazzacano e Lorenzo Iachini nella primavera del 2013, “Ultimo Viaggio con Caronte” è il primo 8c molisano e il primo di questo grado salito da un climber del Sud Italia (in attesa di una prima ripetizione dopo la prima salita che realizzai diversi anni fa). Su una cosa bisogna porre molta attenzione quando si prova la via e cioè sulla sicura, in quanto gli speroni rocciosi della parete opposta del canyon distano poco dalla linea degli spit ed il rischio di finirci sopra in caso di volo è alto (è già accaduto!).

GUERRE SANNITICHE 8b+: Dura via situata sui primi blocchi della falesia (Blocchi numerati), ovvero sulla fascia rocciosa che si nota subito in alto a sinistra percorrendo il sentiero principale. Ho compiuto la prima salita di questo tiro 3 anni fa senza rendermi conto della difficoltà di questa via, poi per fortuna sono arrivati i gemelli Luca ed Emilio Silvaroli a provarla e quest’ultimo l’ha ripetuta definendone il grado.

AGONY 8a: Primo ottavo grado di Frosolone e del Molise ed anche il mio primo 8a, chiodato e salito più di 20 anni fa da Sebastiano Labozzetta. Ho salito questa via a 15 anni diventando il primo della mia regione a riuscire a scalare quel mitico numero 8. Le emozioni che ho provato durante tutto il processo di studio e libera di questa via sono state uniche e solo su altre poche vie ho provato qualcosa di simile. L’energia positiva di chi ti sta affianco e crede in te, i tanti tentativi con le persone giù a farti il tifo e supportarti… che ricordi! Ripeterla in notturna per il set fotografico mi ha fatto tornare in mente tutti quei momenti indimenticabili.

FUGA DALLA FOLLIA 8a e GALCATICA 7c: Due tra le più belle vie della falesia, ancora non ho ben chiaro il motivo ma “Fuga” e “Galactica” invece di seguire una linea più o meno retta come la maggior parte dei tiri di arrampicata, a metà si incrociano e ognuna procede in una direzione opposta. Così si sono ben 4 combinazioni possibili: oltre alle vie originali che si incrociano, è possibile salirle entrambe “dritte” e cioè senza traversare a destra o a sinistra. Tra gradi e nomi diversi ciò ha creato non poca confusione tra i climbers, ma chiodare è visione, immaginazione e tanto sudore, ricordiamocelo!

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VARIANTE A QUEMIDA 7b+: Variante dritta di uno dei tiri più ripetuti della “Morgia Quadra”. Chiunque sia venuto a scalare a Frosolone ha sicuramente notato o sentito parlare di questa via e dei suoi allunghi su buconi. La variante aggiunge un + al grado dell’originale grazie ad un dinamico/lancio da compiere in basso per ricollegarsi alla linea storica.

VIAGGIO AD AVALON 7b: A sinistra di “Agony” c’è un’evidente fessura poco lineare che spacca in 2 il masso del “1° Gemello” (Blocco A). Movimenti estetici su una roccia di una qualità altissima e rara per i suoi colori e forme. Anche questa è una via storica, chiodata da Paolo Caruso se non sbaglio circa 30 anni fa.

Link: FB Pietro Radassao, Instagram Pietro Radassao

Diretta Slovacca sul Denali: prima salita femminile per Chantel Astorga e Anne Gilbert Chase

Intervista con Anne Gilbert Chase dopo la prima salita femminile, la 9° salita assoluta, della famosa Diretta Slovacca sul Denali, ripetuta dal 2 al 5 giugno 2018 insieme a Chantel Astorga.

Dal 2 al 5 giugno Chantel Astorga e Anne Gilbert Chase hanno ripetuto una delle più ambite e temute vie in Alaska, la Diretta Slovacca sul Denali (6194 m). Aperta dal 13 al 23 maggio 1984 da Blažej Adam, Tono Križo e František Korl, nel 2000 questa grande cavalcata lungo la parete sud è stata ripetuta in 60 ore di arrampicata non-stop da Steve House, Mark Twight e Scott Backes, poco dopo la prima ripetizione per mano di Ben Gilmore e Kevin Mahoney. Dopo un primo tentativo nel 2017, Astorga e Chase hanno ora completato quella che è solo la nona salita della via e la prima salita femminile. Colin Haley, che di recente ha salito in velocità la Cresta Cassin, aveva dichiarato senza mezzi termini che la salita di Astorga e Chase “dimostra che loro sono tra i migliori alpinisti al mondo in questo momento.” Abbiamo parlato con Anne Gilbert Chase per saperne di più.


Anne Gilbert, puoi parlarci innanzitutto del vostro rapporto con Denali?

Per alcuni anni sia Chantel che io abbiamo lavorato come guide su Denali. Lei ha lavorato dal 2008 al 2011 ed io invece dal 2010 al 2012. Ognuna di noi ha lavorato come guida per un alcuni anni e abbiamo anche trascorso del tempo in altre parti del massiccio, arrampicando per noi stesse. Quindi sì, il Denali è molto speciale per entrambe ed è un posto in cui entrambe abbiamo imparato molto.

Perché la Diretta Slovacca?
Ho sempre pensato che la parete sud del Denali fosse bellissima e anche il versante più sorprendente della montagna. Ho trascorso alcuni anni fare la guida sulla West Buttress e conoscevo quindi la montagna e le diverse vie. Ma è stato solo nel 2015, quando ho salito il Mascioli’s Pillar sulla South Buttress, che ho visto da vicino la parete sud e la Diretta Slovacca. A quel punto ho capito che la volevo salire.

Quanto avevate arrampicato insieme tu e Chantal prima di affrontare la Diretta Slovacca?
Chantel e io ci siamo legate insieme sulla stessa corda per la prima volta lo scorso maggio, quando abbiamo provato a salire la Diretta Slovacca la prima volta. Ci conoscevamo già dal 2010 quando ci eravamo incontrate lavorando come guide sul Denali, ed eravamo rimaste in contatto nel corso degli anni, ma fino ad allora non avevamo mai arrampicato insieme. Dopo il nostro tentativo sulla via slovacca, mio ​​marito Jason Thompson ed io abbiamo chiesto a Chantel di unirsi a noi per una spedizione in India dove abbiamo aperto Obscured Perception (1400m, VI WI5 M6 A0 70°) sul Monte Nilkantha, nel Garhwal, Himalaya, India centrale. Successivamente Chantel e io abbiamo deciso di tentare nuovamente la Diretta Slovacca questa primavera.

Allora come è andata la salita?
Abbiamo arrampicato dal 2 – 5 giugno 2018, raggiungendo la cima il quarto girono, quindi abbiamo trascorso 3 giorni in parete. Nel complesso le cose sono andate sorprendentemente bene. L’arrampicata è stata difficile ma piuttosto lineare e non abbiamo avuto troppi problemi a trovare la via. Il tempo è stato davvero buono per i primi 2 giorni, con nevischio nelle prime ore del mattino ed in serata. Alla sera della terza notte è arrivata una tempesta, eravamo a circa 4800 metri. Faceva molto freddo, nevicava, c’era vento e non c’era posto per bivaccare; quindi abbiamo continuato fino a circa 5400 metri dove c’era un punto per bivaccare sulla Cresta Cassin. Di sicuro queste sono state delle ore difficili. Ma a parte questo… sì, la salita è filata molto liscia. Come tempi siamo state nella media, forse leggermente più veloci degli altri. So che gli italiani ci hanno impiegato 5 giorni l’anno scorso. Ma molto dipende dalle condizioni in cui si trova la via.

E come erano le condizioni quest’anno?
Le condizioni erano piuttosto secche. Guardando le immagini delle precedenti salite, e parlando con altri alpinisti, la parete era decisamente secca. Come periodo eravamo piuttosto in anticipo rispetto agli altri, quindi non è stata una totale sorpresa che la via fosse così, in più quest’anno in generale è stato un anno secco in tutto il massiccio. Ma i tiri di ghiaccio di WI6 non erano in condizioni ottimali e salirli è stato molto più difficile del solito. Detto questo, oltre al bivacco all’aperto della seconda notte, che sapevamo sarebbe stato un rischio, le cose sono filate molto bene e come previsto. Abbiamo raggiunto la cima il giorno previsto e tutto è andato come da programmi. Molto sorprendente, ma davvero bello.

3 bivacchi in parete quindi?
Sì, 3 bivacchi. Il primo nella terminale a 4000 m. Il secondo un bivacco sedute a 4600 m circa, e il terzo sulla Cresta Cassin a 5400 metri circa.

C’è stato un momento chiave?
Ci sono molti tiri duri che sembravano piuttosto difficili a causa delle condizioni, il freddo, la quota, dello zaino pesante e la stanchezza. Ma ci sono 2 momenti in particolare che mi vengono in mente. Il tiro finale di WI6 è stato estremamente difficile a causa delle condizioni. Come ho detto, è stato un anno secco in Alaska e siccome abbiamo salito la via così presto, il ghiaccio non era in buone condizioni come in genere può essere. L’ultimo tiro di ghiaccio era strapiombante e il ghiaccio era pessimo. Questo ha reso l’arrampicata molto difficile. Anche l’ultimo tiro tecnico della via slovacca è stato super difficile. Non abbiamo trovato il diedro d’uscita e abbiamo salito del ghiaccio molto ripido ed un diedro di misto. Oltre alla già di per sé difficile arrampicata, eravamo nel mezzo di una tempesta piuttosto intensa, con neve che ci cadeva addosso da ovunque. Avevamo molto freddo, la visibilità era praticamente ridotta a zero ed avevamo arrampicato per 18 ore. Questo è stato probabilmente il momento più difficile.

Come la giudichi allora questa vostra ripetizione? Per te è stato un passo in avanti rispetto a quello che hai fatto in passato?
Onestamente, ho sempre visto la Diretta Slovacca come una via che volevo veramente salire e sapevo di essere in grado di farlo se avessi avuto la finestra di bel tempo giusto. È sicuramente la via più sostenuta che io abbia fatto, ma per tutto il tempo ho sentito che era totalmente nelle mie capacità. Non ho mai sentito di aver rischiato troppo, o che la via fosse fuori dalla mia portata. Non considero quindi questa salita come un “passo successivo”. La considero una bella via dalla quale sono stata attratta, ed ero determinata a salirla. Il caso vuole che si tratti di una mega via sul Denali.

Adesso che l’hai ripetuta, cosa ci dici della prima salita del 1984?
Caspita, i primi salitori sono stati degli uomini duri non c’è dubbio! Hanno trascorso 9 giorni in parete, utilizzando 150 chiodi di roccia e 40 chiodi di ghiaccio. Questo è stato più di 35 anni fa ed è ancora considerata una via molto difficile per gli standard odierni. Quindi sì, penso che fossero cazzuti e avevano una visione straordinaria per aprire questa nuova via sulla parete sud del Denali.

Ultima domanda: come vorresti che la vostra salita fosse ricordata e celebrata? Come una rara ripetizione, la nona, oppure come prima salita femminile?
Click Here: USA Mens Soccer Jersey Per quanto mi riguarda, sono contenta di aver ripetuta la Diretta Slovacca e sono contenta di essere una parte delle altre 8 salite che reputo tutte piuttosto incredibili. Sono orgogliosa di essere su una lista con alcuni dei migliori alpinisti del mondo. Onestamente non mi interessa troppo che siamo state le prime donne a salire la via, e non è stato qualcosa a cui abbiamo pensato mentre la stavamo ripetendo. Tuttavia, se la nostra salita ispira altre donne ad andare sulle grandi montagne e realizzare i loro sogni, allora sono molto favorevole, ma il titolo di “prima salire femminile” non è poi così importante per me.

In ricordo di Massimo Giuliberti

Il ricordo di Andrea Giorda di Massimo Giuliberti, Accademico del Cai e istruttore della scuola Giusto Gervasutti di Torino, mancato in Tanzania nei pressi del campo base del Kilimanjaro. Il 3 settembre alle ore 18 a Torino al Monte dei Cappuccini, Massimo verrà ricordato con tutti quelli che vogliono partecipare.

Massimo Giuliberti, Accademico del Cai e istruttore della scuola Giusto Gervasutti di Torino è mancato in Tanzania nei pressi del campo base del Kilimanjaro. Un incidente banale per un alpinista di grandissima esperienza con un curriculum smisurato di grandi scalate nelle alpi e su alcune vette extraeuropee. Massimo era nato nel 1958 ed era un riferimento per la Scuola Giusto Gervasutti e per il Club Alpino Accademico dove è stato presidente del Gruppo Occidentale, ma soprattutto è stato un maestro per tantissimi giovani che ne hanno immensa riconoscenza. Lascia due figli Carlo alpinista e scalatore da 8c e Laura più intellettuale entrambi con una forte impronta del papà. Il ricordo di Andrea Giorda

Il 3 settembre alle ore 18 a Torino al Monte dei Cappuccini, Massimo Giuliberti verrà ricordato con tutti quelli che vogliono partecipare.

Massimo, all’apparenza così razionale, era un uomo dalle passioni smisurate. Contenute nei modi sabaudi, mai gridate, ma forti e prorompenti. Recentemente aveva coronato il suo sogno di avere una casa in dolomiti ad Alleghe e non gli pareva vero che dalla finestra principale si vedesse in tutta la sua immensità la “parete delle pareti” la Nord Ovest del Civetta. Una piccola foto nella libreria di quella casa che lo ritraeva con il “Greco” George Livanos, era il suo orgoglio.

Quante volte, partendo in piena notte nel fine settimana dopo il lavoro da Milano o da Torino, divorava vioni di mille metri e più, con l’obbligo di essere al lunedì sul lavoro. Le dolomiti erano sicuramente le sue montagne del cuore, pur essendo torinese aveva un curriculum di scalate nelle alpi orientali difficilmente eguagliabile, ora sognava, nel suo “buen retiro” di Alleghe, di poter vivere quei monti con i ritmi di un uomo ancora prestante ma che si avvicinava ad una età matura, più riflessiva.

Massimo, tuttavia non era tipo da pensione, quante volte l’ho esortato a mollare ogni impegno lavorativo e godersi gli ultimi anni in piena libertà come avevo fatto io. Lo conoscevo dai tempi del liceo, avevamo studiato all’università Agraria e poi entrambi, per un caso strano, eravamo diventati dirigenti nel mondo delle vendite. Io alle Pagine Gialle lui una lunga e brillantissima carriera nel “Food” Agnesi, Danone ….poi direttore del personale in aziende simbolo e di prestigio come la Martini &Rossi e la Unichips, quella delle patatine San Carlo. L’ultima volta che ci siamo visti, pochi mesi fa mi disse che aveva pianificato di smettere di lavorare, non so se l’avrebbe fatto.

L’Alpinismo, quello con la A maiuscola e la sua storia hanno guidato tutta la carriera alpinistica di Massimo, si era fissato di ripetere tutte le vie Giusto Gervasutti, anche le più repulsive come quelle in Delfinato, la nord ovest del Pic d’Olan o la nord ovest dell’Ailefroide occidentale. In questa ricerca mi contattò quando dovette affrontare la parete simbolo di Gervasutti, la Est delle Grand Jorasses. Una via con pochissime ripetizioni che ancora negli anni 70 richiese ai fuoriclasse Peter Boardman e Joe Tasker grande impegno.

La passione per Gervasutti era condivisa e nonostante fosse tempo che non praticavo grande alpinismo accettai. Patrick Berault, sentito dall’amico Fulvio Scotto, consigliava di passare dalla cresta di Tronchey, ma arrivati sulla verticale della cengia della est non si trovava il passaggio e come spesso accade in questi casi ci fu una accesa discussione se scendere o rinunciare. Io ero per andare e forzai la mano dicendo che se nessuno veniva sarei andato da solo, mi feci passare i friend e i chiodi e stavo per calarmi quando Massimo mi disse, aspetta, vengo anche io. Ne ero certo, avevo giocato d’azzardo ma sul sicuro, Massimo non avrebbe mai separato la cordata. Fu un’esperienza indimenticabile, insieme coronammo il sogno di una vita, quante volte avevamo letto da ragazzini il tormentato racconto di Gervasutti su quella parete mitica.

Proprio il saper recitare a memoria le parole di Gervasutti ci salvò da un errore che può costare caro, arrivati a più di metà parete si trova una fessura larga e invitante, bisogna abbandonarla per un ostico traverso a sinistra difficile da proteggere. Gervasutti dice di aver piantato un chiodo e di essersi calato…il chiodo è ancora lì, con il vecchio moschettone in ferro, per me e per Massimo vedere quel chiodo è stato un momento di grande commozione, era come aver incontrato il nostro eroe da ragazzini, un segno che aveva resistito negli anni, su quella parete selvaggia, per arrivare fino a noi.

Massimo era un riferimento, una voce autorevole in tutti gli ambienti che ha frequentato. Insieme, sfruttando le nostre esperienze professionali abbiamo organizzato eventi che hanno lasciato il segno come il Convegno annuale del Club Alpino Accademico di Bard del 2007 in valle d’Aosta con Guido Magnone, primo salitore della ovest del Dru e molti altri protagonisti, ci si confrontò sull’etica di apertura delle vie, con un indimenticabile intervento di Rolando Larcher custode della lealtà in parete.

L’ultimo convegno del CAAI organizzato insieme è stato al Palazzo Ducale di Genova nel 2016 con diversi ospiti tra cui Patrick Gabarrou e Alessandro Gogna sul tema Alpinismo e Avventura. Massimo è stato un maestro per tanti giovani alpinisti, sono in tanti a dovergli qualcosa e sentirne la mancanza, nella vita e in montagna era un generoso, spesso severo davanti a comportamenti o atteggiamenti che non condivideva.

Quando muore qualcuno di caro si tende a farne l’apologia, Massimo aveva il suo carattere, non facile, spesso ci siamo trovati a discutere in parete o nell’organizzazione degli eventi, eravamo complementari, lui più istituzionale io più spudorato e creativo, ma nei momenti che contavano ha sempre prevalso l’immensa fiducia che ognuno aveva nell’altro. Avevamo la stessa età sessanta anni, a sessanta anni non sei vecchio ma come dice Vasco Rossi, “sai che il treno arriva alla stazione” e avrei voluto ancora qualche anno per arrivarci insieme.
Ciao Massimo.

Andrea Giorda – Caai Alpine Club

Gli 80 anni di Ugo Manera

Andrea Giorda racconta gli 80 anni di Ugo Manera, il fortissimo alpinista ed accademico del Club Alpino Accademico Italiano, nato a Torino il 1º febbraio 1939, che ha giocato un ruolo fondamentale nel movimento del Nuovo Mattino e, a partire degli anni ’70, è stato un assoluto punto di riferimento per l’arrampicata e l’alpinismo italiano.

ìVenerdi 1 febbraio 2019 Ugo compie 80 anni, la sua storia è scritta in un libro Pan e Pera e di lui si sa tutto. Per gli 80 anni di Ugo ho pensato di scrivere la mia esperienza, di getto, magari con qualche imprecisione, poco importa. Lui già prima era un alpinista famoso, ma il mio racconto inizia da come io l’ho conosciuto. Un punto di vista esterno non convenzionale. Ho scritto in pochi minuti sulla base dei sentimenti e dei ricordi, anche con riconoscenza per quello che Ugo è stato ed è. Non sempre ho condiviso tutti i suoi punti di vista ma di sicuro è uno con cui è sempre stato bello, interessante e spesso divertente confrontarsi.

Nei primi anni ’70 avevo visto qualche volta Ugo al CAI, sempre indaffarato e deciso, incuteva un certo timore reverenziale…. non ci conoscevamo, erano i tempi del Nuovo Mattino e lui apriva vie con Gian Carlo Grassi Grassi e Giampiero Motti, suo grande amico. E’ curioso quanto fossero diversi. Giampiero era l’intellettuale delle domande… e noi ragazzini avevamo da pensare. Ugo era la concretezza delle risposte insieme incarnavano lo Yin e lo Yang.

In quegli anni ero istruttore di Sci Alpinismo alla Sucai e avevo già un bel curriculum di scalate dalle Dolomiti alle Alpi Centrali con Enrico Camanni. Normale che due ragazzi sentissero il bisogno di confrontarsi con i più forti scalatori del momento, che militavano quasi tutti alla Scuola Gervasutti.

Decidemmo strategicamente di iscriverci come allievi nell’autunno del 1977 e, alle Courbassere, Ugo invitò Enrico, che già conosceva e me a provare alcuni passaggi che scalammo senza troppe difficoltà. Il nostro impegno come allievi fu decisamente scarso e addirittura io arrivai una mattina in ritardo in piazza Castello dove ci si trovava, ero rimasto in giro tutta la notte a far casino con un’amica. Non sapevo, ma ero stato assegnato proprio ad Ugo! Ugo mi rampognò bonariamente e visto che gli avevo detto che avevo solo una vecchia piccozza in legno mi aveva portato la sua, in alluminio, reduce da spedizioni, non la usava più e la conservo ancora.

Pochi giorni dopo mia madre mi chiama e mi dice che al telefono c’è un signore che non ha capito chi è, io rispondo e riconosco la voce di Ugo e temo un mega cazziatone… invece lui con tono burbero mi dice, senza chiamarmi per nome… “senti un po’ vuoi venire a fare l’istruttore alla scuola Gervasutti?”

Io non mi aspettavo questa promozione sul campo e non mi pareva vero. La stessa telefonata fu fatta a Enrico Camanni e volavamo a metri di altezza, come solo due ragazzini invasati potevano fare. Alla prima riunione ricordo Locatelli, Meneghin, Santunione e tanti altri che leggete nei racconti di storia ed io ed Enrico eravamo li ad occhi bassi, ma non dimessi, le nostre ripetizioni erano di tutto rispetto. Conobbi Ugo direttore, giovane, determinato, molto meno scherzoso che ora, ma sempre chiaro franco e leale. Anche nella mia vicenda avrebbe potuto liquidarmi come un tipo inaffidabile e farmi pagare l’affronto …. invece valorizzò l’aspetto positivo, la non comune esperienza in montagna e le capacità in arrampicata.

I valori e i modi di andare in montagna erano molto diversi da ora. Per dirla in breve, era dominio comune che l’alpinismo fosse un’attività pericolosa, anche mortale e questo fatto era accettato da tutti. Nelle nostre uscite era normale andare su terreno vergine, trascinare gli allievi su terreni infidi e non sempre proteggibili come normalmente facevamo noi alla domenica. Ovvio che si usava il buon senso, e l’allievo era messo tutte le volte che si poteva in sicurezza. Ma su certi terreni e in certe condizioni la sicurezza è relativa.

Nel 1979 successe un brutto incidente, in un’uscita del corso di alpinismo al rifugio Teodulo dovevamo fare le nord dei Breithorn, la Supersaxo, la Triftjigrat e la Jung! Io avevo 20 anni e stavo andando alla Jung con due allievi inesperti (!), mi sentivo forte, con energie debordanti…le nord le avevo fatte tutte e mi mancava quella, correvo di notte fra i crepacci perché era la via più distante e lunga. Enrico Pessiva era vicino a me e mi disse che sentiva delle voci… le prime luci dell’alba inquadrarono l’attacco della Triftjigrat dove giaceva un allievo morto e un istruttore ferito. Non si sa come, l’unica pietra in mezzo a una parete ghiacciata era cascata addosso ai due malcapitati, lasciandoli in una striscia di sangue.

Portai giù io l’auto del morto, non ero scioccato per nulla, nella mia testa bislacca di ventenne era un fatto che poteva accadere e si accettava per una passione che non aveva limiti. Per Ugo non fu lo stesso, dovette andare dai genitori e dire che il loro figlio era morto. Da quel giorno la Gerva cambiò, l’aspetto sicurezza entrò prepotentemente nelle nostre discussioni e Ugo scelse di orientare la scuola verso una attività pur sempre avventurosa, eravamo una scuola di alpinismo vero! Ma la scelta delle mete e la selezione degli istruttori avrebbe tenuto in maggior conto i pericoli oggettivi.

Ugo intanto apriva vie a ripetizione, sul Monte Bianco e soprattutto nel Gran Paradiso, erano gli anni in cui il sodalizio con Isidoro Meneghin fu più forte, e Isidoro era spesso anche mio compagno di aperture o scalate, insieme aprimmo la via alle Pagine di pietra nel vallone di Forzo.

Ugo scalava e sulla Rivista della Montagna puntualmente raccontava le sue esperienze e i suoi punti di vista che facevano sempre discutere. In quegli anni, mi pare proprio Motti, lo chiamava simpaticamente Pan e Pera e lui invece di piccarsi ne ha sempre giustamente fatto un vanto. Il suo Alpinismo era tirato fuori a forza, da una dura attività lavorativa, a differenza di Grassi o altri, il suo tempo era limitato e non poteva perderne!

Spesso ancora oggi dice di se di non essere mai stato un fenomeno dell’arrampicata, ma questo non vuol dire che non sia stato un fenomeno nelle realizzazioni. Il punto più alto della sua carriera alpinistica è nel 1980, quando scala in una spedizione composta da vari alpinisti il Changabang nel Garhwal indiano. Lui e Lino Castiglia raggiungono la vetta soli, dopo un lavoro di squadra per arrivare al colle. Per darvi un’idea in quei posti aveva già incontrato in una spedizione precedente Peter Boardman e Joe Tasker, leggende dell’alpinismo mondiale. Il grande alpinismo si faceva li, e Ugo era arrivato in vetta. Tra le grandi imprese italiane dell’alpinismo extraeuropeo il K2, il Tirich Mir di Guido Machetto e Gianni Calcagno, il Gasherbrum IV di Bonatti e Mauri … il Changabang di Ugo e Lino non era certo da meno.

Che dire? Ugo quando c’è una novità tecnica, un nuovo orizzonte non si arrocca mai al suo grande passato ma ancora oggi è curioso anche delle piccole cose. Per me è sempre una grande piacere quando ci vediamo e mi racconta i suoi imperdibili aneddoti…

Martedì siamo andati io e Battezzati per l’ultimo ritocco alla nostra nuova falesia Cateissoft, vediamo che c’è qualcuno… Ugo Manera e Claudio Santunione, devo dire che mi sono emozionato a rivederli insieme. Ugo 80 anni venerdì 1 febbraio 2019 e Santunione, Santunghia per gli amici. A 71 anni che lo assicurava con la massima attenzione, come fosse un prezioso vaso di porcellana che non doveva assolutamente cadere. Una cordata apparentemente fragile, di anziani, ma con uno spirito e una determinazione inalterati, nei loro gesti e nei loro occhi nulla era cambiato.

Grazie UGO! Buon compleanno.

di Andrea Giorda

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Mal di montagna acuto, lanciato il crowdfunding per lo studio sul Monte Rosa

È stato lanciato un crowdfunding per uno studio sul mal di montagna acuto che il 15-16 giugno porterà circa 25 soggetti alla Capanna Gnifetti sul Monte Rosa. I risultati saranno disponibili verso fine giugno. Il gruppo di fisiologia dell’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Milano, presenta il progetto.

Passeggiare in montagna o scalare una parete per raggiungere la vetta sono ormai pratiche molto comuni che appassionano persone di tutte le età. Purtroppo però la bellezza di queste attività all’aria aperta e a contatto con la natura possono a volte essere “rovinate” dall’insorgenza di sintomi connessi alla ridotta disponibilità di ossigeno (ipossia) come mal di testa, nausea, e vomito, prodromi di mal di montagna acuto. i meccanismi alla base dell’insorgenza di questa patologia, già ampiamente studiata dalla letteratura scientifica, non sono però ancora ben chiari.

Il gruppo di Fisiologia dell’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche, specializzato nello studio degli adattamenti del corpo umano agli ambienti estremi e già protagonista in diverse campagne scientifiche in alta quota, ha di recente avviato un nuovo progetto di ricerca finalizzato a capire la relazione tra le modificazioni dell’ossigenazione cerebrale durante esercizio e l’insorgenza di mal di montagna acuto.

Dopo aver eseguito alcuni test in normossia e in ipossia simulata, i partecipanti al progetto prenderanno parte ad una spedizione alla Capanna Gnifetti (3647m) sul Monte Rosa. I ricercatori intendono individuare modificazioni di alcuni parametri fisiologici correlati alla ossigenazione/deossigenazione cerebrale che possano chiarire meglio i meccanismi alla base del mal di montagna acuto.

Maggiori informazioni sono presenti al seguente link: experiment.com

Chi volesse contribuire attivamente al progetto può donare un piccolo contributo al link sopra riportato per aiutare a coprire le spese della spedizione (entro il 1 Giugno).

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Arrampicata in Valle Orco: sul Sergent due vie tra il classico e il quasi moderno

Umberto Bado presenta due vie d’arrampicata in Valle dell’Orco assolutamente da non perdere: Fessura della Disperazione e la Via Locatelli.

Il Sergent è la parete più famosa e frequentata della Valle dell’Orco. Su queste grandi placconate di solido gneis le fessure si rincorrono tra di loro creando un paradiso per gli amanti del trad e dal 1973 ad oggi tante sono le linee nate per mano di climbers abili e visionari.

Le due vie che vi presento sono molto differenti tra di loro ma al contempo molto belle. La prima, la Fessura della Disperazione, è il simbolo dell’arrampicata in valle ed un bel banco di prova per trad-climbers già navigati. La Via Locatelli invece può essere considerata una “via-scuola” per predere confidenza con le fessure e le protezioni veloci.

La quota di scalata è di circa 1600m e l’esposizione prevalente è sud. Il periodo di scalata dura generalmente da maggio fino ad ottobre salvo condizioni particolari.

Le vie presentate non hanno significativi problemi di colate d’acqua anche dopo periodi piovosi e una mezza giornata di sole e vento le rende asciutte e percorribili.

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Non mi rimane che augurarvi buone scalate e buon divertimento!

SCHEDA: Fessura della Disperazione + Camino Bernardi, Sergent, Valle Orco

SCHEDA: Via Locatelli, Sergent, Valle Orco

di Umberto Bado,Guide Alpine Torino

Trofeo Mezzalama 2019, la partenza slitta a domenica 28 aprile

La mitica gara di scialpinismo sul massiccio del Monte Rosa, il XXII Trofeo Mezzalama, si correrà domenica 28 aprile 2019 per le avverse condizioni meteo.

Il Trofeo Mezzalama slitta di un giorno a causa del maltempo in corso sul Monte Rosa, previsto fino a venerdì. La XXIIedizione della leggendaria “maratona bianca”, fissata per sabato 27, si potrà correre domenica 28 aprile. Stesso fantastico percorso attraverso i ghiacciai valdostani, da Breuil-Cervinia a Gressoney-la-Trinité, superando ben tre quattromila: Castore, Naso dei Lyskamm e questa volta anche Roccia della Scoperta sul Colle del Lys.

Lo annuncia il direttore tecnico Adriano Favre, la guida alpina che dal 1997 regge le sorti della più ambita gara di scialpinismo, la più alta al mondo. “Stamattina (ieri ndr) – dichiara Favre – ho esaminato le cartine meteo con l’aiuto dei professionisti della Società Meteorologica Italiana. Con il miglioramento previsto da venerdì pomeriggio, il Mezzalama si potrà correre solo domenica 28. L’attesa pausa di sabato ci servirà per rimettere in sicurezza il percorso in quota, soprattutto nei tratti più ripidi del Castore e del Naso dei Lyskamm. Per questi lavori è mobilitato uno staff di un centinaio di guide alpine e volontari. Gli stessi che domenica mattina si schiereranno nei posti di controllo, in attesa delle cordate degli scialpinisti, quasi 300 di tre atleti ciascuna, da 18 nazioni”.

Novità Mezzalama 2019 – stavolta salirà non due ma tre quattromila
Il Trofeo Mezzalama, prova finale del circuito europeo di scialpinismo La Grande Course, si correrà con partenza dal centro di Breuil-Cervinia e traguardo a Gressoney-La-Trinité. La storica gara nata nel 1933 è l’unica al mondo a svolgersi sui ghiacciai attraversando due quattromila, la vetta del Castore (4126 m) e il Naso dei Lyskamm. “Quest’anno – ha annunciato Favre – il percorso supererà la calotta nel Naso (4275 m), più alta del Castore. Ma la vera novità dell’edizione 2019 sarà un terzo quattromila. Invece di cominciare la discesa verso Gressoney appena valicato il Naso, da quota 3900 gli atleti risaliranno con gli sci verso il colle del Lys fino alla Roccia della scoperta (4177 m). Come nel Mezzalama 1978, vogliamo ricordare l’impresa dei sette montanari di Gressoney che nel 1778 raggiunsero questo
piccolo isolotto roccioso che emerge dai ghiacciai tra Valle d’Aosta e Vallese. Fu un’impresa di livello europeo, compiuta otto anni prima della conquista del Monte Bianco. I sette pionieri gressonari, ricordati da un bel monumento a Gressoney- Saint-Jean, inaugurarono così sia la scoperta del massiccio del Monte Rosa, sia la storia dell’alpinismo.”

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Info:www.trofeomezzalama.it, YouTubeefacebook.com

Cima Scarpacò parete nordovest, impegnativa discesa dei fratelli Dallavalle

Il report di Luca Dallavalle della probabile prima discesa con gli sci della parete nordovest di Cima Scarpacò (3252m) nel gruppo Adamello – Presanella, salita e sciata il 22/04/2019 con suo fratello Roberto Dallavalle.

La discesa della complicata ma bella parete nordovest di Cima Scarpacò è stato per certi versi un caso; un mio amico che non sapeva dove fosse la Cima di Bon mi ha mandato una foto dall’altro versante della valle, per sapere se si trattasse di quella. Non lo era, infatti la parete nella foto era la nordovest dello Scarpacò, con una linea di 600m che osservavo già da qualche anno e che da dopo il 2014 non è mai stata così innevata come in questa primavera. Si tratta di una estetica parete, impossibile di non notare quando si sale al rifugio Denza.

Studiando bene la foto, io e mio fratello ci siamo detti “perché no”? Approfittando dell’ottimo innevamento, il giorno dopo siamo saliti a darci un occhiata, anche se con molti dubbi. In salita abbiamo trovato una linea logica e in discesa abbiamo effettuato qualche modifica all’itinerario di salita sfruttando delle spine con neve polverosa per evitare dei tratti ghiacciati e di misto fatti in salita. E’ stata una discesa molto impegnativa ma di soddisfazione.

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In discesa abbiamo notato altre varianti e possibilità, ma questa è l’unica linea che parte dalla cima ed evita calate anche se molti passaggi sono stati un po’ al limite.

Dislivello totale 2100m (partenza da Stavel). Altezza parete circa 600m; arrivati in cima alle 12.30
Difficoltà stimate: per le condizioni trovate 5.4 E4

diLuca Dallavalle

Link:FB Luca Dallavalle